I Social network, così come i classici strumenti di messaggistica istantanea (WhatsApp, posta elettronica ecc…), fanno parte della quotidianità di ciascuno di noi, agevolando la possibilità di esternare un proprio pensiero/opinione nei confronti di persone determinate (gruppi WhatsApp) o indeterminate (post su Facebook).
Il mezzo utilizzato per veicolare un messaggio e il suo contenuto, nel contesto dei rapporti di lavoro, segnano spesso la differenza tra l’applicabilità di una sanzione disciplinare espulsiva (licenziamento) e una conservativa (come una multa o sospensione).
In verità, come dimostreremo nel corso dell’articolo, esistono ulteriori circostanze di fatto che possono rendere illegittimi i conseguenti provvedimenti disciplinari e che prescindono dal mezzo utilizzato per veicolare il messaggio ingiurioso o denigratorio, vediamo quali.
Indice
Il caso
La Corte di Cassazione, il 6 marzo di quest’anno, ha deciso in merito alla legittimità di un licenziamento basato sul contenuto di determinati messaggi inviati su una chat WhatsApp.
In particolare, il dipendente in questione aveva inviato, nel gruppo WhatsApp denominato “Amici di lavoro” (composto da altri 13 colleghi), alcuni messaggi vocali riferiti al superiore gerarchico team leader, con contenuti offensivi, denigratori, minatori e razzisti.
In seguito a questi fatti, la società procedeva al licenziamento grazie alla segnalazione di alcuni dipendenti partecipanti al gruppo e alla successiva ammissione del dipendente, ma, nonostante ciò, la Suprema Corte ha dichiarato illegittimo il licenziamento, vediamo perché.
La disciplina sulla segretezza della corrispondenza
La Corte di Cassazione argomentava la sua decisione riprendendo una recente sentenza della Corte costituzionale (sentenza n. 170 del 2023), dove veniva sottolineato come
L’art. 15 Cost. definisce inviolabili “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” e si estende ad ogni strumento che l’evoluzione tecnologica mette a disposizione a fini comunicativi, compresi quelli elettronici e informatici, ignoti al momento del varo della Carta costituzionale.
Inoltre, i giudici delle leggi, attraverso quest’ultima sentenza, hanno delineato le caratteristiche essenziali per delimitare il perimetro della tutela Costituzionale:
I messaggi elettronici, per essere tutelati dalla Costituzione, devono rispondere ai requisiti come sopra descritti, in difetto dei quali sarà configurabile solo una manifestazione del pensiero rivolta ad un destinatario determinato.
Posta elettronica e messaggi WhatsApp
Applicando i principi della Corte costituzionale, notiamo come i messaggi di posta elettronica vengono inviati a una specifica casella di posta, accessibile solo al destinatario e tramite procedure che prevedono l’utilizzo di codici personali solitamente non condivisi con altri soggetti.
Stesso discorso vale per i messaggi WhatsApp, spediti tramite tecniche che assicurano la riservatezza, accessibili solo ai soggetti che abbiano la disponibilità del dispositivo elettronico di destinazione e normalmente protetto anch’esso da codici di accesso o altri meccanismi di identificazione.
La posta elettronica e i messaggi WhatsApp operano secondo modalità e procedure che soddisfano i requisiti di segretezza, determinatezza e riservatezza, con la conseguenza che i messaggi inviati tramite questi strumenti sono Costituzionalmente inviolabili, in armonia anche con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU sentenza 17 dicembre 2020, Saber contro Norvegia).
È importante precisare che la tutela costituzionale rimane valida finché la comunicazione conservi carattere di attualità e di interesse per i corrispondenti, venendo meno solo quando il decorso del tempo o altra causa abbia trasformato il messaggio in un mero “documento storico” (Cass. civ. n. 5334/2025; vedi anche la giurisprudenza penale Cass. pen. n.1269/2025; Cass. pen. n.25549/2024).
Effetti operativi sul rapporto di lavoro
Nel caso affrontato dalla Corte di Cassazione, i giudici ermellini hanno giudicato illegittimo il licenziamento poiché:
La garanzia della libertà e segretezza della corrispondenza privata e il diritto alla riservatezza nel rapporto di lavoro, presidi della dignità del lavoratore, impediscono di elevare a giusta causa di licenziamento il contenuto in sé delle comunicazioni private del lavoratore, trasmesse col telefono personale a persone determinate e con modalità significative dell’intento di mantenere segrete le stesse, a prescindere dal mezzo e dai modi con cui il datore di lavoro ne sia venuto a conoscenza.
L’informazione così acquisita, anche se su segnalazione di alcuni partecipanti al gruppo, può, al più, far attivare forme di attenzione per possibili eventi successivi, ma, certamente, non può costituire giusta causa di recesso datoriale.
Lesson learned
In fase di contestazione disciplinare, è bene essere consapevoli di poter contestare solamente gli illeciti o inadempimenti realmente rilevanti ai fini disciplinari, irrogando poi la sanzione proporzionata a quanto effettivamente contestato.
Con riferimento alla sentenza analizzata, la società avrebbe dovuto adottare un proprio Regolamento aziendale integrativo del CCNL, attraverso il quale, ad esempio, sarebbe stato legittimo contestare l’inosservanza del divieto di utilizzo di Chat/social durante l’orario di lavoro, anziché contestare il contenuto del messaggio in quanto tale.
E SE AVESSE PUBBLICATO IL MESSAGGIO SU FACEBOOK?
La prospettiva cambia completamente se il messaggio ingiurioso non viene inviato in una chat chiusa (come un gruppo WhatsApp) ma viene diffuso su social come Facebook tramite post, storie, commenti…
La Corte di Cassazione, attraverso l’ordinanza n.12142/2024, ha dichiarato legittimo un licenziamento per giusta causa irrogato nei confronti di una dipendente, accusata di aver pubblicato un post diffamatorio su Facebook nei confronti del proprio datore di lavoro.
La Suprema Corte argomentava la sua decisione dichiarando:
In tema di licenziamento disciplinare, costituisce giusta causa di recesso, in quanto idonea a ledere il vincolo fiduciario nel rapporto di lavorativo, la diffusione su “Facebook” di un commento offensivo nei confronti della società datrice di lavoro, integrando tale condotta gli estremi della diffamazione, per la attitudine del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del messaggio tra un gruppo indeterminato di persone.”
Attenzione però, perché non tutti i post denigratori o astrattamente offensivi sono qualificabili come diffamatori e quindi idonei a giustificarne il licenziamento. Ecco alcuni casi particolari:
Casi particolari
LA NON PUNIBILITÀ
La Corte di Cassazione sezione lavoro, attraverso la sentenza n. 26446/2024, ha escluso che un determinato post denigratorio e esplicitamente offensivo pubblicato su Facebook fosse punibile in sede disciplinare attraverso il licenziamento.
Questo perché il CCNL, applicato dalla società convenuta, subordinava il licenziamento per giusta causa alle sole ipotesi di delitto (come la diffamazione), ipotesi che però è stata espressamente esclusa dalla Corte di Cassazione dopo aver applicato il diritto penale alla vicenda che riguardava la dipendente.
Per ciò che ci interessa in questa sede, basti saper che nel diritto penale esistono alcune situazioni che non possono essere punite a causa di particolari circostanze soggettive, che escludono la colpevolezza dell’autore del reato.
Ad esempio, la diffamazione non è punibile quando è commessa nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui (non punibilità ex art. 599 c.p.), ed è ciò che ha applicato la Suprema Corte di Cassazione.
Il caso giudicato dalla corte
Analizzando i fatti sia sotto il profilo penalistico che civilistico, la Corte ha concluso escludendo la possibilità di irrogare la massima sanzione espulsiva, pur in presenza di un rilievo disciplinare della condotta.
Difatti, in questo caso, il post era stato pubblicato poco dopo una fuoriuscita di sostanze tossiche nell’ambiente lavorativo (fatto ingiusto), ritenuto a livello putativo di responsabilità della datrice di lavoro (fatto ingiusto “altrui”), che ha coinvolto il marito della dipendente licenziata (provocando lo stato di ira della dipendente).
La Corte, quindi, ha ritenuto che la condotta fosse comunque punibile in sede disciplinare (dal momento che il post era in ogni caso esplicitamente offensivo), ma non attraverso il licenziamento (dal momento che era stato escluso il delitto di diffamazione), dichiarandolo, di conseguenza, illegittimo.
IL DIRITTO DI CRITICA
La Cassazione, con la sentenza 5331/2025, ha giudicato illegittimo il licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che aveva pubblicato, sulla piattaforma informatica della società datrice di lavoro, un commento palesemente negativo sull’operato della società.
La Corte ha ritenuto non punibile il dipendente, poiché la sua condotta rientrava nel legittimo esercizio del diritto di critica protetto dall’art. 21 Cost. che riconosce a tutti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, ma anche in ragione dell’art. 10 CEDU che ribadisce come “ogni persona ha il diritto alla libertà di espressione”, e dell’articolo 1 Statuto dei Lavoratori che riafferma “il diritto dei lavoratori, nei luoghi in cui prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero”.
Giudicando illegittimo il licenziamento, la Corte ha argomentato come la critica rechi con sé, di regola, un giudizio negativo o di dissenso rispetto alle opinioni altrui e possiede, quindi, una incomprimibile potenzialità lesiva nei confronti del destinatario, del suo onore e della sua reputazione.
Non dimentichiamoci però che anche il diritto di critica incontra dei precisi limiti, esplicitati di seguito.
I limiti del diritto di critica
Come già analizzato all’interno del nostro articolo sul caso Rai, il diritto di critica ha dei precisi limiti, superati i quali decade la tutela Costituzionale:
La continenza formale è particolarmente importante poiché legata alla correttezza e alla misura del linguaggio adoperato, che non possono sfociare in un’aggressione gratuita (nel senso di non essere alcun modo collegata e funzionale allo scopo per cui la critica è mossa) e distruttiva dell’onore del soggetto interessato.
Tuttavia, non è requisito della critica che essa sia esplicitamente costruttiva, difatti può anche consistere in un mero sfogo, purché sia espressa con toni e parole non volgari e non infamanti e sia correlata ad un bene meritevole di tutela, come certamente sono le condizioni dignitose di lavoro.
In sostanza, le critiche non possono avere ad oggetto le qualità personali del datore di lavoro, oggettivamente avulse da ogni correlazione con il rapporto contrattuale e gratuitamente mirate a ledere la sua onorabilità.
CONCLUSIONI:
I casi esaminati ci consentono di comprendere l’esistenza di ulteriori circostanze che, prescindendo dal mezzo utilizzato per veicolare il messaggio ingiurioso o denigratorio, possono rendere illegittimi i provvedimenti disciplinari irrogati.
Riassumendo, al fine di formulare un provvedimento disciplinare legittimo, risulta fondamentale conoscere:
- La disciplina dei contratti collettivi: Lo studio dei CCNL e CCI sono essenziali non solo al fine di rispettare il principio di proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto al fatto contestato, ma anche per comprendere quali sono i fatti che possono avere rilevanza disciplinare.
- La disciplina ulteriore prevista dai propri regolamenti aziendali: A nostro avviso, risulta indispensabile integrare nello specifico il codice disciplinare a seconda delle effettive esigenze della società, rendendo chiare le ipotesi di infrazione, sia pure mediante una nozione schematica e non dettagliata, ed indicando, contestualmente, le prescrizioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento alle effettive adempienze.
- I limiti costituzionali: È importante comprendere che la Costituzione pone dei chiari limiti che si applicano integralmente anche ai rapporti di lavoro, ed è quindi necessario agire nel rispetto di tale quadro come interpretato anche dalla giurisprudenza.
In ultima analisi, pare fondamentale citare anche le considerazioni provenienti dal Garante per la protezione dei dati, secondo cui:
Il datore di lavoro deve verificare la liceità delle informazioni raccolte, valutando la corretta base giuridica del trattamento, nonché il rispetto delle diposizioni che vietano al datore di lavoro di acquisire e comunque trattare informazioni non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore o comunque afferenti alla sua sfera privata (art. 8 della l. 20 maggio 1970, n. 300 e art. 10 d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, cui fa rinvio l’art. 113 del Codice).