Indice
Descrizione del fatto
Non è passata inosservata la recente decisione dell’amministratore delegato Rai in merito al procedimento disciplinare avviato nei confronti della nota giornalista Serena Bortone, accusata di aver violato le policy aziendali attraverso la pubblicazione di un post nelle sue pagine social.
Il post della conduttrice del programma “Che sarà” conteneva una espressa critica nei confronti dei vertici Rai a causa dell’improvvisa, e a suo dire inspiegabile, risoluzione del contratto con Antonio Scurati. Il noto scrittore, infatti, avrebbe dovuto leggere il suo monologo relativo alla festa del 25 Aprile durante il programma della conduttrice, ma a poche ore dalla trasmissione, la giornalista viene a conoscenza che Scurati non si presenterà negli studi della famosa Società radiotelevisiva.
Così scriveva Serena Bortone sui suoi social: “Era previsto un monologo di Antonio Scurati sul 25 aprile. Ho appreso ieri sera, con sgomento, e per puro caso, che il contratto di Scurati era stato annullato. Non sono riuscita ad ottenere spiegazioni plausibili. Ma devo prima di tutto a Scurati, con cui ovviamente ho appena parlato al telefono, e a voi telespettatori la spiegazione del perché stasera non vedranno lo scrittore in onda sul mio programma su Raitre. Il problema è che questa spiegazione non sono riuscita a ottenerla nemmeno io“.
Il commento dell’A.D. Roberto Sergio, conseguente alla diffusione della notizia in merito alla contestazione disciplinare, era volto a chiarire come “la normativa vieta di rilasciare dichiarazioni pubbliche su attività, notizie o fatti aziendali. La contestazione è un atto dovuto e seguirà l’iter previsto dal regolamento.”
Il susseguirsi di queste vicende ha provocato sgomento e spaccature nell’opinione generale, tra chi contesta un eccessivo controllo sull’informazione pubblica e chi vorrebbe maggiori garanzie per assicurare il rispetto delle regole aziendali e delle linee guida dell’Amministrazione Rai.
In questa sede non entreremo nel merito della vicenda della giornalista RAI, ma ci soffermeremo invece sulla necessità – in generale – di bilanciare il diritto alla libertà di espressione del lavoratore con i doveri di lealtà e riservatezza nei confronti del datore di lavoro.
Quando un post sui Social ha rilevanza disciplinare?
In linea generale e salvo prescrizioni più specifiche dei contratti collettivi di lavoro, il datore di lavoro può promuovere un procedimento disciplinare nei confronti di un dipendente solo se il comportamento contestato è espressamente vietato dai propri regolamenti aziendali.
L’art. 7 dello Statuto dei lavoratori sancisce infatti l’obbligo, in capo al datore, di prevedere e affiggere il codice disciplinare in un luogo accessibile a tutti i dipendenti, con la conseguenza che in caso di mancata affissione, il datore di lavoro non possa applicare alcuna sanzione. Il cd. principio di «predeterminazione» del codice disciplinare costituisce una forma di pubblicità che condiziona il legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro, il cui adempimento deve essere provato dal datore medesimo.
La giurisprudenza più recente ha però ammesso anche delle deroghe al suddetto principio, stabilendo che l’affissione non si rende necessaria quando la violazione riguarda doveri fondamentali dei lavoratori ovvero condotte contrarie al minimum etico universalmente condiviso.
In sintesi, in tutti i casi nei quali il comportamento sanzionato dal datore di lavoro sia immediatamente percepibile come illecito dal dipendente perché contrario al c.d. minimo etico o a norme di legge, l’affissione del codice disciplinare non rappresenta una condizione di legittimità dell’esercizio dell’azione disciplinare.
Nell’era dei social network, accanto ai codici disciplinari, è emersa la necessità di prevedere specifiche policy volte a regolamentare cosa si possa e cosa non si possa fare nel web, con il fine preciso di prevenire ed evitare danni all’immagine e al patrimonio aziendale.
Queste regole non solo si interessano dei comportamenti attuati tramite social network durante l’orario di lavoro, ma definiscono anche modalità d’uso consigliate con riferimento a comportamenti extra-lavorativi che abbiano connessione diretta con il rapporto di lavoro.
Già il Garante per la protezione dei dati personali, nelle Linee guida del 2007 per posta elettronica e internet, consigliava l’adozione di appositi codici disciplinari interni, redatti in modo chiaro e senza formule generiche, da pubblicizzare adeguatamente verso i singoli lavoratori, nella rete interna mediante affissioni sui luoghi di lavoro (con modalità analoghe a quelle previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori).
[ved. anche: Attività del Garante 2022: le lesson-learned sulla protezione dei dati nei rapporti di lavoro]
Fatto salvo quanto detto, i contenuti dei codici disciplinari non possono spingersi fino a limitare l’esercizio di diritti costituzionalmente garantiti. Infatti, se da un lato l’adozione di disciplinari interni rappresenta il metodo più funzionale per il legittimo esercizio del potere disciplinare in capo al datore di lavoro, dall’altro i suoi contenuti possono solamente specificare gli obblighi generali del lavoratore previsti dal Codice civile (diligenza, obbedienza e fedeltà) tenuto conto del contesto lavorativo.
In questo contesto emerge la difficoltà di bilanciare il diritto di critica esercitato dal lavoratore come libera manifestazione del pensiero nei confronti del proprio datore di lavoro, tutelato dall’articolo 21 della Costituzione, con l’obbligo di fedeltà dello stesso lavoratore a garanzia degli interessi dell’impresa, tutelati all’articolo 41 della Carta costituzionale.
Nel prossimo capitolo andremo ad analizzare come i giudici hanno ponderato i diversi interessi in gioco, richiamando le principali pronunce presenti in giurisprudenza, delineando i confini che separano i due contrapposti diritti.
Il diritto di critica e l’obbligo di fedeltà
La Costituzione tutela la libertà d’espressione in tutte le sue forme, riconoscendo alla generalità dei consociati la libertà di manifestare il proprio pensiero, con un solo limite espresso, costituito dalla non contrarietà al buon costume e dai limiti impliciti collegati ai valori della persona umana di cui all’articolo 2 della Costituzione.
Nel diritto del lavoro questa libertà trova un esplicito riconoscimento legislativo all’interno dello Statuto dei lavoratori, dove all’articolo 1 viene previsto che: “I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge”
Questa libertà si contrappone a espliciti obblighi in capo al prestatore di lavoro, in particolare con l’obbligo di fedeltà previsto dall’articolo 2105 del Codice civile. Quest’ultimo consiste nell’obbligo di tenere un comportamento leale, anche al di fuori dell’orario di lavoro, determinato dalla necessità di salvaguardare il datore di lavoro contro il possibile uso pregiudizievole delle notizie e delle informazioni di cui il lavoratore viene, comunque, a conoscenza.
La Suprema Corte ha precisato lo stretto collegamento tra l’obbligo di fedeltà con le regole di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. Il lavoratore, pertanto, deve astenersi da tutti quei comportamenti che, per la loro natura e le loro conseguenze, appaiono:
I. in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa,
II. idonei a creare situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa stessa,
III. idonei, comunque, a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto stesso.
I confini del diritto di critica
È bene in primis precisare che, in questi contesti giuridicamente complessi, il giudice è chiamato ad effettuare una valutazione di merito che deve compiersi con il necessario rigore, e non limitarsi a considerare gli aspetti formali. È richiesta una puntuale contestualizzazione dei fatti oggetto di causa, con una particolare attenzione ed una spiccata sensibilità, proprio perché non può non prescindere dall’esame del contesto sociale e culturale in cui la critica è stata espressa, e del livello di conflittualità che l’ha determinata. In particolare:
- il giudice deve valutare se i comportamenti addebitati si traducono in una oggettiva lesione della reputazione dell’impresa e del datore di lavoro (o dei suoi preposti)
- se le accuse sono state espresse per la realizzazione di interessi giuridicamente rilevanti (es. la tutela del posto di lavoro di cui all’articolo 4 della Costituzione)
- come sono state diffuse (e in quale ambito) le notizie e se queste modalità sono ragionevolmente adeguate alla protezione di tali interessi;
- se i fatti denunciati sono veri (in tutto o in parte) e come tali apprezzati dai diffusori
Esaminando invece più approfonditamente il contenuto del post o del commento critico, sono state elaborate sin dal 1986 delle regole per l’esercizio della libertà d’espressione riprendendo quelle da tempo stilate per l’esercizio del diritto di cronaca (vedi altri approfondimenti sul diritto di cronaca “Riservatezza di un minore e diritto di cronaca: un bilanciamento complesso“)
La sentenza Cass. 1173/1986 ha delineato alcuni parametri utili per valutare i limiti entro i quali l’esercizio del diritto di critica può qualificarsi come legittimo. In particolare, i giudici di legittimità, hanno precisato che il legittimo esercizio del diritto di critica è subordinato al rispetto dei requisiti come di seguito riportati:
- Continenza sostanziale = ossia la veridicità dei fatti espressi, ritenendo sufficiente che il lavoratore verifichi «la mera attendibilità o verosimiglianza dei fatti denunciati», senza che debba accertare la verità assoluta dei fatti.
- Continenza formale = ossia l’esposizione in modo misurato dei fatti. Secondo la giurisprudenza, il rispetto della continenza formale se da un lato comporta la necessità di usare espressioni civili, dall’altro non è pregiudicato dall’utilizzo di opinioni astrattamente offensive o sgradite alla persona che le riceve; in ogni caso, la critica non deve trasmodare in insulti gratuiti.
- Rilevanza sociale dell’informazione = la critica deve rispondere anche alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante, come ad esempio la tutela della salute pubblica.
La legittimità della critica dipende dunque anche dalle modalità con cui essa viene esternata. Sotto questo profilo, non sembra emergere in giurisprudenza una maggiore tolleranza per eventuali critiche espresse in termini inurbani tramite social network.
Al di là di questi pochi punti fermi, molti studiosi sottolineato come la giurisprudenza, nonostante sia sostanzialmente concorde sulla definizione teorica dei confini del diritto di critica, in realtà sia in difficoltà a tenere posizioni univoche, data la estrema variabilità dei casi concreti. Da ciò deriva «l’assenza di una sicura linea di demarcazione, adattabile ad ogni fattispecie», poiché il confine dipende (anche) dalla «figura di lavoratore presa in considerazione».
Conclusioni
Riprendendo brevemente le soluzioni più efficaci, è bene che i datori di lavoro si dotino di specifiche social media policy per rendere edotti i lavoratori dei comportamenti vietati sui social media, con le relative conseguenze.
Mentre per i lavoratori, è essenziale che essi siano consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni sul web, nonostante la protezione della libertà di espressione, esercitando tale diritto con responsabilità e cognizione di causa sulla base dei parametri come enunciati in questo articolo.