Recentemente si è tornati a parlare della disciplina sul Whistleblowing, sia per effetto del Parere emanato dal Garante Privacy sugli schemi di “Linee guida in materia di whistleblowing sui canali interni di segnalazione” (Registro dei provvedimenti n. 581 del 9 ottobre 2025), e sia per effetto delle pronunce giurisprudenziali che hanno ridefinito il perimetro delle tutele riconosciute al segnalante, ponendo al centro il principio di protezione contro ogni forma di ritorsione.
Tuttavia, la concreta applicazione di tali garanzie nel contesto giuslavoristico solleva questioni complesse: dai criteri per determinare il carattere ritorsivo di taluni provvedimenti ai nuovi mezzi di tutela introdotti in via interpretativa dai giudici del lavoro e del Garante Privacy.
Di seguito abbiamo cercato di sintetizzare gli orientamenti più significativi e recenti sull’argomento, al fine di delineare la miglior prassi operativa da adottare nella gestione di talune ed eventuali vertenze.
Indice
Introduzione
Come ormai è risaputo, l’obiettivo della disciplina in esame è quello di agevolare il disvelamento degli illeciti commessi all’interno dell’ente pubblico/privato soggetto alla normativa e quindi, di conseguenza, di acquisire dai segnalatori tutte le informazioni funzionali a quel risultato.
[Sull’evoluzione normativa si veda anche Whistleblowing: le novità in arrivo per le imprese]
Più precisamente, giova ribadirlo ai nostri fini, la segnalazione è una comunicazione (che può assumere diverse forme) contenente informazioni, compresi i fondati sospetti, riguardanti violazioni già commesse o che, sulla base di elementi concreti, potrebbero essere commesse nell’organizzazione.
Il legislatore europeo (e anche quello italiano limitatamente alla disciplina applicabile ratione temporis solo nel settore pubblico) era ben consapevole che la persona segnalante, intrattenendo rapporti giuridici con l’ente nel quale sospetta siano stati commessi illeciti, sarebbe stato suscettibile di subire ripercussioni significative in mancanza di un adeguato ventaglio di tutele in grado di salvaguardare gli interessi dei cd. “whistleblower”.
Ripercorrendo brevemente, quindi, gli istituti giuridici più rilevanti per comprendere l’ambito delle tutele, andiamo a vedere come le stesse sono state poi applicate e rese effettive dai giudici del lavoro dall’entrata in vigore del Decreto 24/2023.
[Per un’analisi più approfondita si veda anche: Le 10 cose da sapere sul whistleblowing prima del 15 luglio]
Il concetto di violazione e i suoi limiti
L’art. 2, comma 1, lett. a) del Decreto 24/2023 definisce le violazioni segnalabili come quei “comportamenti, atti od omissioni che ledono l’interesse pubblico o l’integrità dell’amministrazione pubblica o dell’ente privato”.
Per ciò che interessa, basti sapere che il concetto di violazione deve essere collegato a veri e propri “illeciti” o comunque ad atti ed omissioni che determinano la violazione di norme del diritto interno o della normativa europea (o che si pongono in contrasto con l’oggetto o la finalità di esse), riferendosi perciò a comportamenti antigiuridici e non a mere condotte “irregolari”.
Da tale definizione, come puntualmente rilevato nelle Linee Guida Anac, ricaviamo che non sono sicuramente segnalabili o denunciabili “le notizie palesemente prive di fondamento, le informazioni che sono già totalmente di dominio pubblico, nonché le informazioni acquisite solo sulla base di indiscrezioni o vociferazioni scarsamente attendibili (cd. voci di corridoio)”.
La giurisprudenza di legittimità ha poi ulteriormente chiarito, nella sentenza 27 giugno 2024, n. 17715, che:
“L’In. del whistleblowing non è utilizzabile per scopi essenzialmente di carattere personale o per contestazioni o rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro nei confronti di superiori. Questo tipo di conflitti infatti sono disciplinati da altre norme e da altre procedure. Le circolari emanate in materia hanno, inoltre, chiarito che le segnalazioni non possono riguardare lamentele di carattere personale del segnalante o richieste che attengono alla disciplina del rapporto di lavoro o ai rapporti con superiori gerarchici o colleghi, disciplinate da altre procedure“.
Sintetizzate quindi le caratteristiche che devono essere possedute da una violazione per essere segnalabile, andiamo ora ad analizzare in quali occasioni emergono le principali tutele a favore del segnalante.
La particolarità del nuovo Parere del Garante Privacy
All’interno del nuovo Parere emanato dal Garante privacy, attraverso il Provvedimento n. 581 del 9 ottobre 2025, risulta significativo evidenziare l’estensione dell’ambito di tutela del soggetto segnalante.
Difatti, a parere del Garante, anche per le segnalazioni non rilevanti ai fini della normativa in materia di whistleblowing, deve comunque essere garantita la riservatezza del segnalante, in ragione della ragionevole aspettativa di riservatezza e tutela della persona che abbia erroneamente assunto di poter beneficiare delle garanzie approntate da detta normativa (sez. 3, par. 3.5, punto 2).
Se inizialmente quindi la tutela alla riservatezza del segnalante era vincolata alle caratteristiche di contenuto e di forma della segnalazione, in difetto delle quali non si sarebbero potute applicare le tutele previste dalla disciplina del whistleblowing, ora con il nuovo orientamento dell’Autority privacy pare che il diritto alla riservatezza possa prescindere dalle formali caratteristiche della segnalazione.
[Per un’altra pronuncia significativa del Garante sul whistleblowing si veda anche: Whistleblowing e trattamento dati]
Il divieto di ritorsione
La tutela più impattante per il segnalante possiamo definirla come di natura patologica, nel senso che interviene allorquando le misure di tutela preventiva (in primis la riservatezza del segnalante e degli altri soggetti coinvolti) falliscono o comunque vengono violate.
In questo contesto emerge fra tutti il divieto di ritorsione in capo all’ente a tutela del segnalante, inteso come “qualsiasi comportamento, atto od omissione, anche solo tentato o minacciato, posto in essere in ragione della segnalazione, della denuncia all’autorità giudiziaria o della divulgazione pubblica e che provoca o può provocare alla persona segnalante o alla persona che ha sporto la denuncia, in via diretta o indiretta, un danno ingiusto”.
La tutela del segnalante è volta alla sua salvaguardia da reazioni ritorsive dirette e indirette, provocate dalla denuncia, nonché dall’applicazione di sanzioni disciplinari ad essa conseguenti come anche affermato nella sentenza n. 12688/2024 della Corte di Cassazione:
“La segnalazione […] (cd. “whistleblowing”) sottrae alla reazione disciplinare del soggetto datore tutte quelle condotte che, per quanto rilevanti persino sotto il profilo penale, siano funzionalmente correlate alla denunzia dell’illecito, risultando riconducibili alla causa di esonero da responsabilità disciplinare di cui alla norma invocata.”
È importante precisare che questa tutela è esclusa non solo a fronte dell’accertamento, con sentenza di primo grado, della responsabilità penale del segnalante per calunnia o diffamazione, ma anche con riferimento agli autonomi illeciti che il segnalante, da solo o in concorso con altri responsabili, abbia commesso (così esplicitato anche nella sentenza 17715/2024 della Corte di Cassazione).
La condotta ritorsiva, in conclusione, deve essere realizzata “in ragione della segnalazione” e deve provocare alla persona segnalante un “danno ingiusto”, in via diretta o indiretta. Risulta quindi essenziale comprendere, nella pratica, quali sono gli elementi in presenza dei quali possiamo qualificare una serie di concotte come ritorsive.
Criteri che determinano la natura ritorsiva dei provvedimenti datoriali
Al fine della corretta comprensione della giurisprudenza che segue, è bene tenere a mente che ai fini della disciplina sul whistleblowing, è onere dell’ente dimostrare che le misure ritenute discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante siano in realtà motivate da ragioni estranee alla segnalazione stessa, in tal guisa per il segnalate è sufficiente evidenziare una serie di fatti tali da far presumere l’intento ritorsivo, ecco di seguito degli esempi:
Corte di Cassazione Sentenza 9 maggio 2024 n. 12688:
All’interno di tale sentenza, che si inserisce nel contesto di una impugnazione di licenziamento illegittimo, i giudici del lavoro hanno ritenuto che il licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente-segnalante avesse in realtà un intento ritorsivo.
Tale conclusione è frutto della valutazione di circostanze fattuali non smentite o adeguatamente giustificate da parte datoriale, ed in particolare: la tempistica ravvicinata tra l’irrogato provvedimento espulsivo rispetto all’avvenuta conoscenza della segnalazione e il progressivo ridimensionamento delle attribuzioni in capo al segnalante tanto da essere indotto a presentare, già prima del provvedimento espulsivo, ulteriori esposti all’ANAC sul presupposto di aver subito ritorsioni a causa delle segnalazioni e denunce.
Tribunale di Milano Sentenza 6 giugno 2025 n. 1680:
Anche questo caso riguarda un licenziamento ritenuto illegittimo per la violazione della disciplina sul whistleblowing. Il giudice del lavoro, reputando ritorsivo il provvedimento datoriale e dichiarando quindi nullo il licenziamento, ha motivato la sua decisione nel seguente modo:
La stretta contiguità temporale tra la segnalazione e il licenziamento disciplinare, nonché l‘irrilevanza disciplinare e insussistenza dei fatti addebitati al signor (…) posti a base del licenziamento per giusta causa, sono di per sé indici chiari dell’intento ritorsivo del provvedimento espulsivo. A ciò deve aggiungersi anche la circostanza che a fine aprile/inizio maggio 2024 (poco prima di avviare la procedura disciplinare a carico del ricorrente) la società resistente aveva pubblicato su Linkedln un annuncio di selezione per lo stesso ruolo (…) ancora ricoperto dal ricorrente (doc.17bis). Va anche considerato il fatto che con la lettera di contestazione del 9 maggio 2024 la società datrice di lavoro ha anticipato il provvedimento sanzionatorio, intimando al lavoratore l’immediata restituzione di tutti beni aziendali e sopprimendo l’e-mail aziendale allo stesso assegnata.
Tribunale di Bergamo Sentenza 6 novembre 2025 n.951:
Il tribunale di Bergamo è stato invece adito nell’ambito di una richiesta di risarcimento danni per le condotte mobbizzanti subite dalla ricorrente. Condotte mobbizzante causate delle segnalazioni presentate in ossequio alla disciplina sul whistleblowing.
In particolare, il giudice bergamasco, tramite l’analisi delle prove documentali e testimoniali, ha riconosciuto non solo la natura ritorsiva di determinate condotte datoriali, ma ha anche affermato che le stesse siano nel tempo diventate vere e proprie condotte mobbizzanti.
In particolare è emerso che a seguito della segnalazione presentata la reclamante ha subito:
- Intimidazioni, minacce e aggressioni verbali da parte dei colleghi,
- Il demansionamento a mansioni inferiori,
- Due procedimenti disciplinari (poi archiviati),
- Denigrazioni da parte del diretto superiore,
- Un totale isolamento da parte del diretto superiore e colleghi.
Le tutele effettive
Oltre al diritto alla riservatezza (con le recenti interpretazioni dal Garante), una forte tutela in capo al segnalante consiste nella già menzionata inversione dell’onere della prova per la dimostrazione dei comportamenti ritorsivi.
Così, nell’ambito di procedimenti giudiziari o amministrativi o comunque di controversie stragiudiziali aventi ad oggetto l’accertamento dei comportamenti, atti o omissioni vietati in quanto ritorsivi, si presume che gli stessi siano stati posti in essere a causa della segnalazione. Pertanto, l’onere di provare che tali condotte siano motivate da ragioni estranee alla segnalazione è a carico di colui che le ha realizzate.
Una volta dimostrata la natura ritorsiva di tali atti, oltre all’effetto di considerarli nulli di diritto, grazie alla sentenza del tribunale di Bergamo si è aperta la strada anche per un ulteriore mezzo di tutela, quello del risarcimento del danno morale presunto.
L’innovativa sentenza del Tribunale di Bergamo
Nella sentenza sopra citata, dopo aver accertato la natura ritorsiva degli atti e il loro legame con le segnalazioni presentate dalla ricorrente, il giudice ha riconosciuto l’esistenza del danno morale inteso come:
“l’intensa sofferenza patita dal soggetto in conseguenza dell’illecito, che si esplica nella sua dimensione interiore e nel rapporto che il danneggiato ha con sé stesso, quale la vergogna, la disistima di sé, il dolore, il patimento d’animo, la paura, la disperazione sofferti al momento del fatto”.
Secondo il giudice, gli elementi qualificanti il danno morale (paura, disperazione, disistima di sé e vergogna) che caratterizzano l’intensa sofferenza soggettiva provata dalla ricorrente in conseguenza delle condotte può essere anche dimostrata in via presuntiva secondo l’id quod plerumque accidit (ciò che di solito accade in determinate situazioni).
Il tribunale ha quindi considerato:
la penosità dell’ambiente di lavoro nel quale la ricorrente ha dovuto lavorare, il profondo senso di malessere, isolamento, emarginazioni e umiliazione provati nella consapevolezza di lavorare con colleghi che non perdevano occasione per manifestare, anche in modo brusco se non aggressivo, ostilità e rancore nei suoi confronti solo per aver dato avvio ad una serie di segnalazioni aventi ad oggetto emolumenti illeciti di cui erano stati beneficiari.
Per tali ragioni, il giudice bergamasco ha condannato l’ente al pagamento di una somma stabilita in via equitativa dal giudice, a titolo di risarcimento ex. art. 2087 cc., pari a 25.000 euro
Conclusioni e consigli utili
L’ evoluzione della disciplina delle tutele del whistleblower permette di comprendere quale sia il grado di attenzione che deve essere necessariamente riposto nella gestione di tali situazioni.
Se per la fase di compliance e implementazione del sistema risultano ancora utili gli articoli del nostro Studio sopra citati e i chiarimenti di Confindustria annessi (vedi articolo Chiarimenti di Confindustria), all’interno di una fase patologica a seguito della presentazione delle segnalazioni è bene non improvvisare al fine di non incorrere in errore.
Si può sinteticamente ritenere, a tal fine, che la sussistenza di una idonea giustificazione del provvedimento datoriale, ad esempio di licenziamento o di trasferimento, puntualmente motivata in fatto e in diritto, escluda la possibilità di configurare l’atto come di ritorsione per la disciplina whistleblowing e il conseguente danno ingiusto, proteggendo quindi l’atto dalla sanzione di nullità e proteggendo l’azienda dall’obbligo di risarcimento danni.
Si consiglia in buona sostanza di valutare attentamente contenuto, modalità e opportunità dei provvedimenti adottati in presenza di segnalazioni da Whistleblowing, documentando le scelte fatte e supportandole con adeguate motivazioni in diritto e in fatto.
