Ad un’analisi superficiale, queste due discipline potrebbero apparire estranee, talvolta addirittura contrapposte tra loro. Qualcuno, dopotutto, potrebbe pensare: cosa c’entra la violenza di genere con la privacy? E perché mai dovremmo invocare tradizioni popolari da “Tra moglie e marito, non mettere il dito”, se il messaggio è che non bisogna voltarsi dall’altra parte, in caso di violenza?
Nella realtà, tutela delle donne e tutela dei dati personali sono entrambe figlie della lotta per i diritti civili, e, come sorelle, non possono far altro che giovare di un costruttivo dibattito sugli argomenti di reciproco interesse. È innegabile, soprattutto, che la tutela delle donne possa e debba passare anche attraverso una più diffusa cultura della protezione dei dati personali e consapevolezza del diritto di ogni persona alla propria riservatezza.
Si pensi alla violenza nella coppia, dove i primi segnali possono corrispondere a un crescendo di “piccole violazioni della privacy” ancora socialmente accettate («dimmi dove sei stata!», «fammi vedere i messaggi sul tuo telefono!», imperativi che non contemplano il consenso). Eppure, sono esse stesse la palese dimostrazione che controllare le informazioni personali di qualcuno, senza regole e senza accordo, equivale a un indiscriminato esercizio di potere sulla persona.
Si pensi quindi al fenomeno dello stalking, fatto di azioni persecutorie che influenzano o compromettono la normale vita quotidiana di chi ne è vittima, generando stati di paura e ansia. Da sottolineare, in questo, il fatto che gli stalker sfruttino sempre più le falle, le opportunità e le vulnerabilità della tecnologia, tramite l’hacking di e-mail e account social, nonché l’utilizzo di spyware e stalkerware (app spesso pubblicizzate come innocue, ma che, piccola nota tecnica, difficilmente supererebbero un’attenta e completa valutazione d’impatto ex. Art. 35 GDPR) per sorvegliare telefoni e altri dispositivi delle vittime.
E proprio le tecnologie informatiche più all’avanguardia, riescono a creare sempre nuovi presupposti e aree di interesse comune per la protezione dei dati personali e la lotta alla violenza di genere: per citarne una, a ottobre 2020 ha fatto notizia il caso di DeepNude, il software basato su un’intelligenza artificiale capace di creare falsi video e foto di persone, e utilizzato su Telegram (nei confronti del quale il Garante ha aperto un’istruttoria) per “spogliare” le donne, ricostruendo l’aspetto del loro corpo senza indumenti, a partire dalla sola immagine del volto.
Si pensi infine anche al rapporto delle vittime di violenza con le istituzioni, laddove denunce e richieste di aiuto possono rischiare di non arrivare mai, rimanere nell’ombra, se non si garantiscono modalità e procedure sicure di trattamento dei dati personali volte ad alimentare anche la fiducia delle donne verso le istituzioni stesse; discorso analogo per le rilevazioni statistiche pubbliche, che per le stesse ragioni e gli stessi timori delle interessate possono risultare parziali, o falsate.
Usando le parole della vicepresidente dell’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, Ginevra Cerrina Feroni (in questo caso riferite alle rilevazioni Istat sul benessere delle donne nell’ambito dell’emergenza Covid):
«condividere con altri la propria esistenza quotidiana […] può diventare arduo, se chi è chiamato a fornire informazioni non si sente protetto da quelle che sente come invasioni nella propria sfera di vita privata. In questa prospettiva –non sembri un ossimoro– la privacy può diventare invece la chiave per “aprire” le donne al mondo e rompere l’eventuale isolamento vissuto.»
La privacy non va infatti identificata con la sua sola accezione (per quanto ancora oggi così radicata nel linguaggio comune), di riservatezza come “diritto a essere lasciati soli” da esercitare, in origine, nei soli confronti delle invasioni della stampa. Certo, nel non lontano 2018, il Garante ha dovuto ancora ammonire alcune testate giornalistiche per la diffusione di dettagli sulle vittime di violenza sessuale (come la nazionalità delle vittime, le loro foto, le riprese dei luoghi di lavoro dove erano avvenute le violenze) ritenuti eccedenti i limiti del diritto di cronaca, e sottolineare che la diffusione di informazioni che rendono identificabile la vittima risulta in contrasto con le esigenze di tutela della dignità della persona offesa.
Ma è anche vero che la tutela dei dati personali, oggi, non si limita a questo, e rappresenta un importante impianto di norme, garanzie e tutele per la persona, in cui è richiesto sempre di rivolgere uno sguardo a tutti i diritti fondamentali.
Non deve sembrare strano, pertanto, che si ritrovino termini e concetti ricorrenti (seppur con diverse declinazioni), comuni a ogni forma di lotta per i diritti civili.
Un esempio sopra a tutti: “Autodeterminazione”.
Di ogni donna, affinché sia libera da coercizioni e discriminazioni di ogni forma e genere.
Di ogni persona, affinché raggiunga il controllo sul patrimonio di informazioni che costituiscono a tutti gli effetti parte integrante della sua identità.
Con queste consapevolezze, ci teniamo a ricordare e sottolineare che il 1522, numero gratuito di pubblica utilità per il supporto alle vittime di violenza, garantisce l’assoluto anonimato, come anche la rete nazionale dei Centri Antiviolenza, che assicurano anonimato e segretezza, e intraprendono azioni che riguardano le donne che vi si rivolgono, solo con il loro pieno consenso.