Gli atti di violenza, sempre più spesso, si realizzano attraverso un uso non corretto di strumenti digitali.
La diffusione illecita di video o immagini appartenenti alla sfera privata e sessuale di una persona, troppo spesso anche utilizzando i canali social, è diventata un mezzo di violenza verso le categorie più deboli: donne e minori.
Parliamo, in particolare, del cosiddetto “revenge porn”: la diffusione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate da parte di chi queste immagini le ha realizzate e da parte di chi le riceve e contribuisce alla loro ulteriore diffusione al fine di creare nocumento alle persone rappresentate.
Si tratta ovviamente di un abuso e di un atto di violenza che nel nostro ordinamento ha radici profonde nella tutela penale del diritto alla riservatezza che si estende anche all’aspetto più intimo della persona, quello inerente la sua sfera sessuale.
Il legislatore è intervenuto a questo riguardo dapprima a salvaguardia del minore: la legge n. 269 del 3.8.1998, volta a combattere lo sfruttamento della prostituzione ed il turismo sessuale in danno di minori quale nuova forma di schiavitù, ha introdotto nell’impianto codicistico l’art. 600 ter c.p. che al quarto comma punisce con la reclusione fino a tre anni e con la multa da euro 1.549 ad euro 5.164 chi offre o cede ad altri, anche a titolo gratuito, materiale che rappresenti attività sessuali esplicite coinvolgenti minori ovvero i loro organi sessuali se, in tal caso, la rappresentazione avvenga per scopi sessuali.
L’intento così perseguito di contrastare tutte le attività prodromiche o strumentali alla pratica della pedofilia, quale la diffusione della pornografia minorile, ha trovato, però, per lungo tempo un ostacolo nella fase genetica della condotta illecita, richiedendosi da parte della Giurisprudenza, compresa quella delle Sezioni Unite (Cass. Pen. SS.UU. sentenza n. 13/2018), che il materiale pornografico fosse stato realizzato da persona diversa dal minore ivi raffigurato, poiché diversamente, essendone lui stesso l’autore, sarebbe venuto meno il presupposto della sua riduzione a strumento od oggetto che la norma vuole sanzionare; “Se così non fosse – osservava in una nota del 28.4.2015 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bologna – anche il minore che realizza da sé – con i sempre più diffusi selfies – l’immagine che lo ritrae nel compimento di atti sessuali dovrebbe rispondere del reato di produzione di materiale porno-grafico”.
La liceità della pratica di sexting primario, consistente nella produzione di messaggi di testo od immagini intime e del loro scambio consensuale con altri soggetti, riverberava, così, i suoi effetti esimenti sulla fase successiva, avendo la Suprema Corte stabilito che non potesse perseguirsi penalmente la condotta di illecita diffusione di materiale pornografico lecitamente realizzato in quanto autoprodotto dal minore, poichè la sua punizione avrebbe costituito un’inammissibile analogia in malam partem.
L’origine lecita della produzione del materiale rendeva, dunque, di fatto inapplicabile le fattispecie di reato: restavano, infatti, sottratte all’egida dell’art. 600 ter c.p. tutte quelle condotte diffusive di rappresentazioni sessuali esplicite realizzate dal minore che avesse raggiunto l’età del consenso sessuale (14 o 16 anni) e da questi inviate con l’ausilio di strumenti informatici ad un terzo che le avesse poi fatte circolare diffusamente.
L’esigenza di ricondurre al precetto penale anche questi comportamenti aumentava di pari passo al sempre maggiore utilizzo dei social tanto che già nel 2015 con la sentenza n. 16340 la Sezione III Penale della Corte di Cassazione, consapevole della perniciosità delle reti social, escludeva la necessità sino a quel momento richiesta perchè potesse ritenersi integrata la fattispecie delittuosa di verificare la sussistenza di un concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico, poichè il suo convogliamento “sulla bacheca di un account si traduce in una metastasi diffusiva con la massima facilità”, essendo la “piazza telematica” ..aperta a tutti e la sua idoneità a diffondere quanto tutti vi versano, incluso il materiale pornografico, ha raggiunto un livello notoriamente così elevato da esonerare la necessità di valutazione del concreto pericolo, nel momento in cui il materiale, appunto, è inserito entro un frequentatissimo social network”.
Appena tre anni dopo nel 2018 il requisito del rischio di diffusione del materiale veniva definitivamente espunto da una nuova pronuncia delle Sezioni Unite (Cass. Pen. SS.UU. n. 51815/2018) che contestualmente sancivano, seppure in via incidentale, la liceità della “pornografia domestica minorile” quale espressione dell’autonomia privata sessuale dei minorenni, degna di essere salvaguardata purché circoscritta a soggetti che abbiano raggiunto l’età del consenso sessuale (14 o 16 anni), all’interno di un rapporto privo di abusività, e sempre che i materiali realizzati siano unicamente a uso privato delle persone coinvolte.
Il vuoto di tutela determinato dall’effetto esimente a cascata sulle condotte successive dell’originaria liceità della produzione del materiale pedopornografico è stato, infine colmato nel 2020 con la sentenza 5522/2020 con la quale la Sezione III della Corte di Cassazione ha rivisto l’interpretazione sino a quel momento avvalorata affermando che per la punibilità della cessione anche gratuita di materiale pornografico non è più richiesta l’eteroproduzione dello stesso.
L’illecita diffusione ad opera di terzi di immagini pornografiche autoscattate dal minore è stata così ricondotta nell’alveo dell’art. 600 ter c.p., rimanendo confinato alla sola condotta di produzione il requisito dell’alterità tra il minore ritratto e l’autore delle immagini.
Il diritto alla riservatezza degli adulti sotto l’aspetto dell’onore e del decoro sessuale era stato, invece, oggetto dell’intervento del legislatore l’anno precedente: la legge 69/2019, nota come “Codice Rosso” ha arricchito il codice penale di una nuova disposizione, l’art. 612 ter c.p. che punisce con la reclusone da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000 la diffusione, la pubblicazione, la cessione e l’invio in assenza del consenso delle persone rappresentate di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, realizzati, sottratti , ricevuti o comunque acquisiti.
La tutela normativa (finalmente) è stata così estesa anche all’adulto che abbia spontaneamente consegnato all’autore del reato le immagini o i video che lo ritraggono e che vengono poi diffusi, pubblicati, inviati, ceduti, consegnati senza il suo consenso (cd sexting secondario) ma in questo caso l’elemento soggettivo richiesto per la configurabilità del reato non è più il dolo generico, vale a dire la consapevolezza di compiere la condotta vietato, ma quello specifico: l’autore della condotta, oltre ad essere consapevole della sua illiceità, deve anche perseguire il fine di recare nocumento alla vittima, venendosi così di fatto a lasciare prive di sanzione condotte non meno censurabili quali quelle di chi diffonde video o immagini al solo fine di vantarsi o di fare uno scherzo.
Questo reato, diversamente da quello previsto dall’art. 600 ter c.p., è punito a querela di parte, proponibile entro sei mesi dalla data di conoscenza del fatto, salvo la procedibilità d’ufficio quando la vittima sia persona in condizioni di inferiorità psichica fisica o in stato di gravidanza oppure quando il fatto sia connesso ad altro procedibile di ufficio.
La vittima che sporge querela può chiedere il sequestro preventivo delle immagini e dei video, ma la misura cautelare risulta evidentemente inefficace se nel frattempo il video è già stato condiviso ed è diventato virale.
Recentemente, sotto questo profilo, la disciplina codicistica ha trovato un alleato efficace nel decreto legge 139/2021 cd. “Riaperture” che ha introdotto nel Codice della Privacy l’art. 144 bis rubricato “Revenge Porn” che consente a chi ritenga di essere vittima del reato di cui all’art. 612 ter c.p. ddi rivolgersi al Garante che entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta deve predisporre indagini e può disporre blocco della diffusione delle immagini. (Pagina sul Revenge Porn del Garante Privacy).
Lo scorso anno per la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne abbiamo parlato di : “Tutela delle donne e privacy: terreni comuni delle politiche per i diritti civili”, articolo di Fabio Marinello.