Il Governo ha affrontato la pandemia di COVID- 19 con una serie di norme comportamentali volte a limitare il diffondersi del contagio tra la popolazione.
La parte precettiva dei provvedimenti legislativi costituita dalle prescrizioni da osservarsi da parte della cittadinanza era inizialmente accompagnata, per quanto riguardava la conseguenza sanzionatoria alla loro violazione, dal mero richiamo all’art. 650 c.p., che punisce con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a € 206 l’inosservanza di un provvedimento legalmente imposto dall’Autorità per ragioni di giustizia o di sicurezza pubblica o d’ordine pubblico o d’igiene.
L’elevato numero di denunce per inosservanza dei divieti di assembramento e di allontanamento dall’abitazione senza necessità – i dati del Viminale relativi al periodo di monitoraggio dall’11 al 14 marzo scorso si attestano sulle 20.000 segnalazioni all’Autorità Giudiziaria – ed il conseguente rischio di intasamento dell’attività delle Procure, hanno indotto il Governo ad intervenire adattando la risposta punitiva alla nuova emergenza: la previsione contenuta nell’art. 4 del decreto legge n. 19 del 26.3.2020 ha trasformato l’illecito penale in illecito amministrativo aumentando al contempo la cornice edittale della sanzione ora solamente pecuniaria comminabile al contravventore che può essere condannato al pagamento di una somma variabile tra i 400 ed i 3000 euro.
Al fine di conseguire il duplice effetto deflattivo perseguito, il comma 8 dell’art. 4 cit. ha attribuito efficacia retroattiva alla previsione normativa testè citata stabilendo che si applichi anche alle violazioni commesse anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto benchè nella misura minima ridotta della metà; i procedimenti penali instauratisi con la presentazione delle denunce inoltrate sino al 26.3.2020 seguiranno, dunque, la strada dell’archiviazione, o del proscioglimento se già esercitata l’azione penale, con la formula “perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato” e della successiva trasmissione al Prefetto per l’irrogazione della sanzione amministrativa.
Diversa è stata la scelta legislativa per quanto attiene alla più grave condotta di violazione della quarantena da parte di chi è risultato positivo al virus che ha, invece, mantenuto rilevanza penale: il comma 6 del citato art. 4 fa conseguire, infatti, a questo comportamento l’irrogazione della sanzione prevista dall’art. 260 del Testo Unico della Leggi Sanitarie (r.d. n. 1265 del 27.7.1934) che è stata al contempo opportunamente elevata essendo ora la trasgressione punita con la pena congiunta dell’arresto da 3 a 18 mesi e dell’ammenda da euro 500 ad euro 5000, applicabile sempre che non si ricada nell’ipotesi contemplata dalla clausola di sussidiarietà che ricorre quando il fatto costituisce violazione dell’art. 452 codice penale o comunque più grave reato.
L’art. 452 c.p. è collocato nel titolo VI del codice penale “Dei delitti contro l’incolumità pubblica” e punisce chiunque cagioni per colpa il reato di epidemia contemplato dall’art. 438 c.p. con la pena della reclusione da uno a cinque anni, forbice edittale che viene aumentata da tre a dodici anni se dal fatto deriva la morte di più persone.
Il bene giuridicamente protetto è quello della salute, che trova riconoscimento espresso nell’art. 32 Cost. sia come diritto fondamentale dell’individuo che come interesse della collettività
La norma non indica precipuamente le condotte diffusive rilevanti limitandosi a richiedere che l’agente cagioni un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni; la condotta punita è, comunque, quella commissiva, con conseguente esclusione di responsabilità per omissione, a norma dell’art. 40 cpv. c.p.
L’evento tipico del reato di epidemia consiste in una malattia contagiosa che, per la sua spiccata diffusività, si presenti in grado di infettare, nel medesimo tempo e nello stesso luogo, una moltitudine di destinatari: l’evento si configura quindi sia di danno che di pericolo, di danno perché costituito dalla manifestazione in un determinato numero di persone di una malattia eziologicamente collegata a quei germi e di pericolo per la possibile propagazione di quella stessa malattia ad altri individui, indipendentemente dalla presenza del primo soggetto agente.
Il presente contributo non può, infine, esimersi da un accenno all’ulteriore ipotesi delittuosa più volte richiamata con riferimento alle false dichiarazioni eventualmente contenute nella autocertificazioni, ovvero quella del delitto di falso ideologico commesso in atto pubblico previsto e punito dall’art. 483 c.p.; l’autocertificazione costituisce, infatti, atto pubblico benché rilasciata da privato in quanto atta ad assumere rilevanza giuridica e valore probatorio interno alla pubblica amministrazione.
Si segnala a questo riguardo che la rilevanza penale della dichiarazione mendace resa nell’autocertificazione prevista dalle recenti disposizioni di legge è stata recentemente esclusa dalla Procura di Genova, attesa “ l’impossibilità di qualificare come “attestazione” penalmente valutabile la dichiarazione stessa che, nel caso in esame, non può ritenersi, finalizzata a provare la verità dei fatti esposti, e resterebbe, dunque, sottratta alla previsione dell’art. 483 c.p.