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Tutela del know how aziendale
Il know how di un’azienda è quasi sempre composto da informazioni di diversa natura: expertise e conoscenze presenti in un’azienda con un elevato valore economico, progetti, ma anche liste di clienti e fornitori etc. Dal punto di vista normativo il legislatore europeo ha cercato di introdurre regole che consentissero alle aziende di tutelare il proprio patrimonio e le proprie informazioni di qualsiasi natura fossero.
Indubbiamente la tutela maggiore è stata riservata alle informazioni riferite a persone fisiche e, quindi, ai dati personali protetti dal Regolamento Europeo 679/2016. Ma anche per il know-how e le informazioni commerciali il legislatore ha accordato una tutela specifica con la direttiva (EU) 2016/943 attuata nel Codice della Proprietà Industriale, ovvero gli art. 98 e 99 (CPI).
In particolare, le informazioni intese come know–how e di segreti commerciali (o “trade secrets”) che siano segreti, abbiano un valore economico e siano protette con misure tecniche adeguate diventano oggetto di tutela in caso di acquisizione, utilizzo o divulgazione a soggetti non autorizzati dall’azienda.
Quali siano le informazioni da tutelare, la normativa non contiene un elenco esaustivo per lasciare prima di tutto alle aziende uno strumento da modellare in base alle proprie esigenze, ma anche ritenendo che dovesse essere la prassi e la giurisprudenza a definirne i contenuti assecondando anche l’evoluzione dei tempi.
La tutela del patrimonio aziendale nei rapporti di lavoro
Quali ricadute operative ha la necessità di tutela del proprio patrimonio aziendale?
L’art.2105 del Codice civile prevede che il prestatore di lavoro, oltre a non dover trattare affari per conto proprio o/e per terzi in concorrenza con l’imprenditore, deve astenersi dal divulgare notizie attinenti all’organizzazione. La normativa prevede infatti che la violazione di tali obblighi possa dar luogo a sanzioni disciplinari.
Uno degli strumenti che l’azienda ha a disposizione per rafforzare il principio del Codice civile è la sottoscrizione di un accordo di riservatezza o accordo di non divulgazione (NDA, acronimo di Non Disclosure Agreement). Si tratta di un contratto in forza del quale le parti individuano le informazioni che intendono mantenere confidenziali e si impegnano a non rivelarle a terzi. Tra i dati e le informazioni indicate come confidenziali può senz’altro rientrare il know-how aziendale e le informazioni ai sensi dell’art. 98 CPI.
Accordi di tal natura possono essere utilizzati anche per tutelarsi verso il comportamento dei fornitori.
Rispetto, però, alla sottoscrizione di NDA con i dipendenti indubbiamente il vantaggio principale è nel termine da attribuire alla confidenzialità e l’eventuale obbligo del segreto successivamente alla cessazione del rapporto contrattuale.
L’accordo di riservatezza è, dunque, uno strumento di tutela nei confronti dei dipendenti: garantisce che il dipendente sia vincolato al segreto anche dopo la conclusione del rapporto lavorativo che può essere anche rafforzato con una clausola penale.
Non è insolito che le aziende, per tutelare il proprio know-how, introducano a seguito di confronto con le controparti sindacali, clausole specifiche di riservatezza e relative sanzioni direttamente all’interno dei propri contratti collettivi aziendali. Le sanzioni da infliggere però, dovrebbero essere proporzionate alla condotta e non dovrebbero essere applicate indiscriminatamente. Questo aspetto non è di facile individuazione.
Il caso giurisprudenziale e il “bilanciamento degli interessi”
Interessante è una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano (sentenza n. 1548/2022 del 05/01/2022) in cui la violazione della riservatezza da parte di un dipendente è stato oggetto di analisi da parte della Corte.
Vediamo il fatto:
Un dipendente che ricopriva il ruolo di Rappresentante per la sicurezza dei lavoratori (RSL) era stato licenziato per aver scattato nei locali dell’azienda committente una fotografia e per averla successivamente inviata tramite “WhatsApp” ad un soggetto terzo.
La fotografia in questione ritraeva dei lavoratori di spalle, quindi non identificabili e una postazione di lavoro.
La società cooperativa – datore di lavoro – sosteneva che fotografando i locali del sito dell’azienda committente ed alcuni suoi dipendenti, il lavoratore avrebbe violato la clausola di riservatezza prevista dal contratto aziendale, che prevedeva il divieto assoluto di scattare immagini, oltre che il divieto di diffusione delle stesse a terzi.
Il contratto aziendale prevedeva che potessero essere inflitte sanzioni disciplinari per i contravventori di questo divieto, comprese le “sanzioni espulsive”. Secondo la cooperativa, inoltre, la condotta del lavoratore era aggravata dal fatto che lui stesso, ricoprendo anche la qualifica di RSA, avesse partecipato a sottoscrivere la clausola in oggetto in fase di contrattazione, non potendo quindi essere in alcuno modo giustificato per tale infrazione.
Diversamente da quanto opinato dalla società cooperativa, il lavoratore sosteneva di aver ricevuto dal datore di lavoro, in qualità di RSL, un’autorizzazione in deroga al divieto sopraccitato. In particolare, il datore lo avrebbe autorizzato a scattare delle foto nella sede della committente al fine di allegarle alla relazione per la sicurezza.
Inoltre, egli sosteneva di non aver inviato l’immagine ad un soggetto terzo, ma al referente dell’azienda committente, con il quale egli abitualmente trattava temi riguardanti la sicurezza sul lavoro, sia con riguardo all’organizzazione del servizio oggetto dell’appalto, sia con riguardo ai temi concernenti l’orario di lavoro dei dipendenti (tema cui si riferisce la fotografia sopraccitata).
Il caso arriva avanti al Tribunale di Milano che accoglie le ragioni del lavoratore e annulla il licenziamento, ma la Cooperativa impugna la sentenza innanzi alla Corte di Appello che sostanzialmente conferma la sentenza del Tribunale.
Interessanti, sono però le argomentazioni della Corte rispetto alla condotta del lavoratore e all’Accordo di Riservatezza.
Il ragionamento parte dall’assunto che il divieto inserito nella contrattazione aziendale aveva la ratio di evitare le violazioni della privacy dei lavoratori e la divulgazione di informazioni aziendali riservate. Esigenze di tutela che, come ha successivamente motivato la Corte, non erano state violate dalla condotta del lavoratore. Nel caso di specie, infatti, l’unica foto eccedente i limiti dell’autorizzazione ottenuta per la materia “sicurezza aziendale” era una immagine che ritraeva alcuni lavoratori, non riconoscibili perché “di spalle” e luoghi di lavoro conosciuti alle parti. L’immagine in questione, quindi, non violava la privacy dei soggetti ritratti e non consentiva di acquisire alcuna informazione riservata, ed era funzionale soltanto all’illustrazione di temi connessi al rispetto degli orari di lavoro.
Tenuto conto che la Privacy dei lavoratori e la riservatezza delle informazioni sono i beni tutelati dall’accordo aziendale; la condotta posta in essere dal lavoratore per la Corte, non lede in nessuno modo i due beni tutelati dall’accordo.
Secondo il Collegio, poi il datore di lavoro avrebbe dovuto applicare l’insegnamento giurisprudenziale “che esclude qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, richiedendo sempre una valutazione in concreto della rilevanza e della gravità della condotta addebitata”.
L’applicazione di tale principio avrebbe escluso il licenziamento per la realizzazione delle fotografie contestate, considerando che:
- l’autore della foto, avente la duplice veste di RSA e RLS, stava fruendo di apposito permesso per lo svolgimento dei propri incarichi inerenti alla sicurezza sul lavoro;
- l’immagine era per un verso inidonea a ledere privacy e segretezza aziendale, e per altro verso, era attinente a temi di rilevanza sindacale (l’organizzazione del lavoro da parte della committente ed il suo impatto sull’orario dei dipendenti della cooperativa);
- la qualifica aziendale del soggetto cui l’immagine era destinata e lo scopo dell’invio, reso manifesto, sono rivelatrici del fatto che lo scatto è stato realizzato nell’esercizio delle prerogative sindacali dell’autore.